Ci riesce assai difficile pensare che Sassello abbia subito un totale abbandono da parte della sua gente nel periodo successivo la preistoria fino ai primi secoli di questo millennio, quanto appaiono i primi documenti che lo citano.

Purtroppo l'ormai nota mancanza di scavi archeologici ci impedisce di ricostruire questo "vuoto" che tanto ha interessato gli studiosi locali.

Restano comunque alcune testimonianze intermedie:

Una raccolta di 8 monete preromane "dramme", facenti parte della collezione Andrea Pautasso, donate dalla fondazione che porta il suo nome al museo archeologico di Aosta.

Purtroppo nulla si sa sul preciso luogo di ritrovamento, se non che provengono dal "ripostiglio di Sassello", fanno parte della monetazione padana (pedemontana) coniata tra il III ed il I secolo a.C. dai popoli stanziati nel Nord Italia, sul dritto vi è rappresentata la testa della dea Artemide, il loro peso va dai 2,33 ai 3,09 grammi.

Due monete romane, esposte nella vetrina della sezione, la più nota è un "nummo alessandrino di Probo", Marcus Aurelius Probus imperatore romano dal 277 al 282, coniata ad Alessandria d'Egitto e facente parte della monetazione coloniale dell'impero, donata dal sig. Giancarlo Alisio di Sassello.

Lo stesso Diodoro Siculo 50 A. C. , scrittore vissuto ai tempi di Augusto, ci ha lasciato alcuni scritti che sembrano rispecchiare le condizioni di vita dei liguri montani in queste zone "...abitano una terra sassosa e del tutto sterile...il paese è montuoso e pieno d'alberi; le montagne sono coperte di neve...per coltivare la terra devono rompere pietre...vanno continuamente a caccia affrontando dislivelli incredibili...mangiano carne sia di bestie domestiche sia selvagge controbilanciando la scarsezza di frutti...trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche capanna, più spesso in cavità della roccia...le donne sono forti e vigorose come gli uomini e questi come le belve..."

E' certo che quando i Romani conquistarono la Liguria interna, all'inizio del II sec. a.C., incontrarono i "Liguri Statielli", una popolazione insediata tra lo Stura e la Bormida. Tito Livio, storico di quei tempi, racconta che gli Statielli avevano la loro sede principale nella città fortificata di Caristo (oppidum Carystum), dove vennero sbaragliati e massacrati dai legionari del console Marco Popilio Lenate nel 173 a.C.; successivamente, a seguito delle atrocità di tale conquista, il Senato ordinò allo stesso console di rimettere in libertà i sopravvissuti che si insediarono in una nuova località situata sulla riva sinistra della Bormida, poi divenuto municipio romano, chiamata Aquae Statiellae o Aquae Statiellorum, oggi Acqui Terme.sez romanoJPG

Come detto la sezione non offre molte testimonianze di quel periodo, vi si può comunque ammirare una piccola collezione di materiale pre-romano e romano grazie ad una donazione di origine sconosciuta (forse da Otricoli).

materiale collezione 1jpgPeriodo Romano 

e... collezione

Una collezione... nella collezione

Particolare interesse merita una piccola collezione di reperti forse provenienti dal territorio dell’antica Otricoli, la cittadina umbra vivace e ricca di storia situata lungo la via Flaminia ai confini con il Lazio.

Il materiale esposto nel museo, piuttosto eterogeneo, comprende una decina di manufatti; mancando precisi dati relativi al ritrovamento e al contesto di scavo è possibile al momento fornire una descrizione dei pezzi in se stessi con indicazioni cronologiche limitate ad un periodo di riferimento.

La raccolta comprende qualche esemplare di vasellame (due reperti interi di ceramica campana a vernice nera, ceramiche d’uso comune e frammenti vari), alcune lucerne, un capitello di lesena ed un frammento di bronzo decorato. La varietà e la tipologia dei manufatti inducono a considerarli in gran parte provenienti da corredi funerari di tombe diverse.

I pezzi hanno un intrinseco valore documentale come significativo contributo alla conoscenza del grado di sviluppo della località di provenienza nel periodo compreso fra l’età greca e il primo secolo dell’impero romano. Alcuni di essi, per l’eccellente qualità della manifattura e soprattutto per l’ottimo stato di conservazione, meritano qualche osservazione particolare.

A questo proposito interessante è l’esempio dell’olpe tardo protocorinzia (sec. VII a.C.), di pasta color camoscio, con un’ansa a nastro sormontata da una rotella che, originariamente, doveva essere ricoperta dalla stessa vernice bruna tuttora visibile sull’imboccatura, sul collo nonché sul basso ventre e sul piede del vaso. La medesima tonalità di colore è utilizzata nel tracciato delle coppie di linee continue che delimitano la zona centrale decorata; in essa si impongono, sullo sfondo chiaro, i corpi di due animali realizzati con un abile gioco cromatico di vernici dai toni marroni e rossi.

Per una maggiore definizione delle figure è utilizzato il disegno a graffito, scelto per la realizzazione di particolari quali il muso della fiera, la scapola, l’articolazione delle zampe nonché per i riempitivi dovuti all’horror vacui.

Tra il materiale ceramico degno di nota è pure un unguentario, il cui corpo globulare è ingentilito e slanciato da un’ampia ansa ricurva che presenta sulla superficie esterna la stessa vernice scura del labbro, del collo e dei personaggi della scena ornamentale. La rappresentazione ritrae, nell’atto di affrontarsi, due guerrieri con lancia che campiscono sul fondo neutro in un armonico equilibrio di volumi; ai lati della scena si ergono due alberi come connotazione paesistica; irregolari punteggiature a punta di pennello come riempitivi completano il quadro complessivo delimitato da schemi stereotipati a gocce verticali in alto e a scacchiera in basso. Il vaso si appoggia su di un piede ad anello sagomato che si rifà alla tonalità neutra dello sfondo.

E’ opportuno anche menzionare un capitello marmoreo di lesena (databile fra i secc. I a.C. - sec. I d.C.) ornato mediante decorazioni vegetali; dalle centrali foglie di acanto si innalza un caulicolo che si arriccia alle estremità e che termina in un calice occupante l’abaco. Completano lo schema ornamentale due girali che, snodandosi dal caulicolo centrale decorano il capitello terminando in due modeste volute.

Tra le lucerne particolare attenzione merita una monolichne a disco non decorato, con beccuccio allungato e canale aperto; sul retro è impresso, ancora ben leggibile, il bollo di fabbrica: CRESCES. Tale bollo risulta molto diffuso nell’Italia Cisalpina ma più raro in quella centrale.

La pietra ollare

La pietra ollare è una roccia metamorfica di varia composizione costituita da cloritoscisti, talcoscisti o ultrabasiti, i cui centri di estrazione e di lavorazione sono stati finora individuati nell’arco alpino nordoccidentale e centrale.

Il suo utilizzo è attestato nella zona alpina fin dalla protostoria (lucerne, forme per fusione), ma solo in epoca romana venne utilizzata per quello che è il suo principale pregio ossia l’uso in campo culinario quale recipiente da fuoco.

La produzione tradizionale dei manufatti in pietra ollare deve essere riconosciuta in due fasi operative: estrazione e foggiatura.

L’estrazione avveniva solitamente nella buona stagione, considerando l’alta quota cui generalmente sono situati i giacimenti - localizzati finora in più di 400 - e sfruttava unicamente l’energia muscolare umana senza l’ausilio di macchine. I pani già predisposti alla successiva lavorazione venivano trasportati in luoghi più agevoli che ne permettessero la lavorazione durante l’intero anno.

Per la lavorazione si faceva anche uso di forza motrice idraulica necessaria ad azionare un pesante tornio orizzontale.

Analisi approfondite dei reperti provenienti da scavi archeologici o da raccolte di superficie nelle aree alpine, dove la presenza è ovviamente maggiore, hanno permesso di distinguere almeno quattro tecniche produttive:

Foggiatura a mano

identificabile da tracce di punte e scalpelli diffuse su tutta la superficie, cronologicamente non anteriore al I sec. d.C. si protrae a tutto il II sec., riscontrata anche in manufatti cinerari rinvenuti in tombe del IV sec.

Finitura con tornio

tecnica probabilmente ottenuta con il tornio da vasaio o con un tornio a mano, è attribuita allo stesso periodo della precedente

Foggiatura di singoli vasi al tornio orizzontale

la forma foggiata al tornio - più diffusa dal III sec. d.C. al VI sec. - (subcilindrica e troncoconica), la frequente presenza di fasce o listelli a volte molto sporgenti la cui esecuzione comporta un notevole aumento dello spessore del materiale interessato alla lavorazione, l’addentramento della tornitura del fondo interno per circa due terzi del diametro necessario al distacco del nucleo residuo, la presenza dell’incavo di alloggio della contropunta del tornio in numerosi nuclei residui, sono fra le principali caratteristiche di questa tecnica

Foggiatura di più vasi al tornio orizzontale (metodo a cipolla)

tecnica ben documentata da fonti scritte e iconografiche a partire dal XVII sec. che consiste nel riutilizzo del nucleo residuo, debitamente staccato, al fine di ottenerne un secondo e a volte un terzo recipiente.

In Liguria la testimonianza di ritrovamenti dei manufatti in pietra ollare è attestata già a partire dalla fine del IV sec. d.C., mentre il periodo di maggior diffusione è il VI sec.

La prosecuzione delle ricerche e l’ulteriore studio delle forme e delle tecniche porteranno a una migliore conoscenza di questi manufatti che da due millenni sono apprezzati per la loro particolare funzionalità.